mercoledì 17 marzo 2010

Fine della relazione: distress emotivo e concetto di sè

Secondo una ricerca pubblicata a febbraio sul Personality and Social Psychology Bulletin, quando una relazione d'amore termina, il concetto di sè dei due partner e' molto vulnerabile al cambiamento.
Il concetto di se' e' considerato come il senso di se stessi. La relazione amorosa comporta amicizie comuni condivise, attività condivise e persino una sovrapposizione del proprio concetto di sé con quello del partner.
Usando tre studi diversi, i ricercatori hanno esaminato i cambiamenti del concetto di sé che possono intervenire alla fine di una relazione ed hanno scoperto che gli individui hanno una ridotta chiarezza della concezione del proprio sé. Questa specie di confusione può generare anche un distress emotivo. La rottura del legame affettivo ha conseguenze psicologiche multiple, tra cui anche la tendenza degli individui a modificare il contenuto del proprio sé ed a modificare i sentimenti che sono soggettivamente meno chiari e perfino non significativi.
Esiste una certa prevalenza all'auto cambiamento esperito quando la relazione finisce e questo a riprova della forza della perdita che ha ripercussioni sul senso di sé.
''Non solo nelle coppie gli individui che la compongono si completano a vicenda, ma vi e' un vero e proprio completamento del senso di sé'', scrivono gli autori dello studio Erica B. Slotter, Wendi L. Gardner e Eli J. Finkel. ''Quando una relazione finisce, l'esperienza individuale non riguarda solo il dolore e la perdita ma anche il senso di sé. La ricerca dimostra l'effetto unico che la mancata chiarezza circa il contenuto del sé ha sul distress emotivo che gli individui esperiscono dopo che si sono lasciati.''

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/181680.php

martedì 16 marzo 2010

Uno strumento per prevenire il suicidio?

Il suicidio lascia perplessi e disturba le persone che ci sono accanto, perché in gran parte non è prevedibile. Le persone che hanno intenzione di suicidarsi molto spesso nascondono le loro intenzioni, oppure le negano, ed in questo modo gli amici ed i famigliari rimangono perplessi sui segnali di allarme che avrebbero potuto cogliere.
Questi segnali spesso sfuggono persino al giudizio di clinici esperti. Per questo motivo i vari clinici esperti nel suicidio hanno sperato di trovare e cercato un chiaro indicatore comportamentale del rischio di suicidio. Adesso sembra che siano riusciti a trovarne uno. Gli scienziati della dell'università' di Harvard affermano che uno strumento usato per comprendere i pensieri inconsci può essere usato per identificare l'intento suicida (anche se questo e' rinnegato e/o tenuto nascosto) offrendo una nuova speranza per il tempestivo intervento per salvaguardare la vita dei soggetti a rischio.
Lo psicologo Matthew Nock assieme ai colleghi di Harvard e del vicino Massachussetts General Hospital, hanno deciso di adottare un test chiamato IAT (Implicit Association Test) per scoprire i segnali di allarme del suicidio. Nello specifico il dott. Nock ha voluto capire se le persone potenzialmente a rischio possano avere associazioni implicite più' forti tra la loro persona e la morte (associazioni che possono puntare anche verso intenzioni auto distruttive). Egli ha valutato157 persone bisognose di trattamento nel reparto di psichiatria ricoverate nella sezione dedicata alle emergenze. I pazienti si presentavano tutti emotivamente provati, ma solo alcuni si trovavano in ospedale perché avevano tentato di suicidarsi. Gli scienziati vollero allora vedere se il test IAT fosse in grado di distinguere queste due categorie di persone (quelle che avevano tentato il suicidio e quelle che erano in ospedale per altre ragioni)
Lo IAT e' un test a tempo. Mentre erano in ospedale, spesso seduti sul letto, ai pazienti venne chiesto di classificare delle parole che apparivano sullo schermo di un computer. Parole come: esanime, prosperare, me stesso, defunto, loro, il loro, sopravvissuto, respiro e così via. L'idea e' quella di osservare come i pazienti, in modo rapido, connettono le parole che riguardano la propria identità ai termini che riguardano invece sia la vita e sia la morte.
Lo studio non finisce qui. Il dott. Nock ha seguito i pazienti per sei mesi e ha notato che per coloro che avevano nel test mostrato un'associazione più' altra tra la propria persona e la morte si e' riscontrato un numero di tentativi di suicidio pari a 6 volte maggiore rispetto agli altri. Questa rappresenta una sostanziale differenza, ed inoltre, le associazioni inconsce si sono rivelate un valido e migliore predittore rispetto alla depressione, tentativi precedenti falliti, o delle intuizioni da parte dei clinici professionisti del rischio di suicidio.
Cosa dire circa la previsione sul nostro campione di pazienti? 14 di essi tentarono il suicidio entro i successivi 6 mesi dopo l'uscita dall'ospedale. La loro autovalutazione fu un indicatore del futuro rischio, ma imperfetto. I risultati dello IAT, invece, furono migliori a livello prognostico perfino dell'autovalutazione dei pazienti stessi. Questo suggerisce che i pensieri inconsci possono essere un utile identificatore e predittore delle intenzioni suicide di cui i pazienti discutono con riluttanza, o delle intenzioni di cui essi non hanno nemmeno consapevolezza.


domenica 14 marzo 2010

L'influenza di Dio nella vita quotidiana.

Molti americani credono che Dio sia interessato al loro benessere personale e che sia direttamente coinvolto nei loro affari personali, secondo una nuova ricerca dell'Università di Toronto.
Usando i dati ottenuti da due recenti sondaggi nazionali il Prof. Scott Schieman ha esaminato la credenza della gente circa il coinvolgimento di Dio e sua influenza nella vita di ogni giorno. La sua ricerca ha scoperto una relazione tra questa credenza e il modo con cui la gente differisce nell'educazione e nei livelli di reddito.
La ricerca di Schieman e' stata pubblicata nel numero di marzo del giornale Sociology of Religion.
In generale, molte persone credono che Dio abbia un'alta influenza sugli eventi e risultati della loro vita. Nello specifico:

  • l'82% dice che si affida a Dio per ottenere una guida o/e aiuto nel prendere le decisioni;
  • il 71% crede che quando accadono buone o cattive cose, queste fanno semplicemente parte del piano di Dio per loro;
  • 61% crede che Dio abbia determinato la direzione ed il corso della loro vita;
  • Il 32% concorda con l'affermazione: ''Non c'e' motivo di pianificare la vita in quanto il mio destino e' nelle mani di Dio.''
  • Generalmente, la gente che ha un'educazione piu' elevata e un piu' alto reddito è meno propensa a credere nell'intervento divino;
  • Comunque, tra i piu' istruiti e i piu' ricchi, coloro che sono coinvolti in rituali religiosi condividono simili livelli di credo circa l'intervento divino come i loro pari con istruzione minore e con minor reddito.

Secondo Schieman molti di noi possono credere che le persone di alta classe sociale tendano a rigettare le credenze in merito all'intervento divino. Comunque, lo studio indica che mentre questo e' vero tra coloro meno impegnati nella vita religiosa, non e' il caso per le persone che sono piu' impegnate nei rituali religiosi e partecipazione all'attivita' religiosa.
La ricerca getta nuovi interrogativi sociologici nel modo in cui la gente di differenti strati sociali crede nell'influenza di Dio nella vita di tutti i giorni. Data la frequenza con cui si parla di Dio nella cultura americana, specialmente in alcune aree, questo e' un settore sempre piu' importante per i recercatori di documentare, descrivere ed interpretare.

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/181821.php