sabato 23 maggio 2009

Le strutture di base della socievolezza

I ricercatori dell'Universita' di Cambridge hanno scoperto che caratteri come l'estroversita' e la socievolezza dipendono dalla struttura del cervello, infatti maggiore e' la concentrazione di tessuto cerebrale in certe parti e' piu' si e' maggiormente affettuosi e sentimentali.
Perche' ci sono alcuni di noi a cui piace stare in compagnia, mentre altri preferiscono starci lontano, isolati ed indipendenti? Nel tentativo di rispondere a questa domanda il Prof. Maël Lebreton ed i suoi colleghi del Dipartimento di Psichiatria di Cambridge, in collaborazione con l'Universita' di Oulu, in Finlandia, ha esaminato la relazione tra personalita' e struttura cerebrale di 41 volontari di sesso maschile.
I volontari sono stati sottoposti alla risonanza magnetica (MRI) e hanno anche compilato un questionario in cui gli si chiedeva di valutare se stessi su item come ''Mi piace essere cortese con la gente'' o ''Ho una buona relazione con la maggior parte della gente''. Il risultato del questionario e' servito per avere una misura generale di socievolezza e sentimenti di affetto chiamati ''soddisfazione sociale''.
I ricercatori hanno quindi analizzzato la relazione tra la soddisfazione sociale dei soggetti e la concentrazione di materia grigia in differenti regioni del cervello. Hanno trovato che la maggiore concentrazione di questi tessuti si trova nella corteccia orbitofrontale (foto a sinistra) (la parte del cervello piu' estrema, giusto sopra gli occhi) e nel corpo striato ventrale (una struttura che si trova in profondita' nel centro del cervello) in misura maggiore in coloro che avevano un punteggio piu' elevato della misura di soddisfazione sociale. La ricerca e' stata pubblicata sull'European Journal of Neuroscience il 20 maggio.
Il Dott. Graham Murray, che ha spiegato i risultati della ricerca dice che la socievolezza e i comportamenti affettuosi verso gli altri, sono dei tratti della nostra personalita' molto complessi. Egli afferma inoltre che questa ricerca ci aiuta a capire, a livello biologico, perche' le persone differiscono nel grado con cui esprimono questi tratti.
''Dobbiamo fare attenzione" dice "perche' siccome questa ricerca e' solamente correlativa non puo' dimostrare che la struttura del cervello determina la personalita'. Potrebbe persino essere che, la nostra personalita', attraverso l'eseperienza, aiuti in parte a determinare la struttura cerebrale''.
E' interessante notare che da studi precedenti e' stato dimostrato che la corteccia orbitofrontale e il corpo striato ventrale sono fondamentali per i processi di molte funzioni cerebrali piu' semplici come quelle per gli stimoli sessuali o la percezione del gusto dolce.
Il Dr Murray spiega che sarebbe interessante se si trovasse che il nostro grado di soddisfazione sociale, che otteniamo attraverso le interazioni sociali, dipendesse da varie strutture cerebrali che sono coinvolte in altre gratificazioni piu' semplici come quelle derivanti dal cibo, dai liquidi dolci, dal sesso.
''Questo, con molta probabilita', e' un indizio su come tratti complessi come i sentimenti e le impressioni si sono evolute da strutture che negli animali furono originariamente importanti solo per i processi di base della sopravvivenza biologica.''dice.
La ricerca puo' anche fornirci nuove idee in merito ai disordini psichici che compromettono le interazioni sociali come nell'autismo e schizofrenia.
''Alcuni pazienti con problemi psichici spesso hanno notevoli difficolta nel percepire i sentimenti, specialmente dalle persone che sono intorno a loro e questo puo' avere un forte impatto sulla loro vita. Potrebbe essere che, la causa di quelle difficolta' sia almeno parzialmente douvta alle caratteristiche della struttura cerebrale che determina quei disturbi.'' conclude il Dott. Murray.

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/150792.php

lunedì 18 maggio 2009

Delinquenze adolescenziali

La ragione per cui alcuni adolescenti sono maggiormente esposti al rischio di vittimizzazione rispetto ad altri e' da ricercare in fattori genetici. Questo e' il risultato di uno studio pioneristico condotto di criminologo Kevin M. Beaver della Florida State University.
Si crede che questo studio sia il primo a indagare sulle basi genetiche della vittimizzazione.
''I fenomeni di vittimizzazione possono sembrare legati a fenomeni puramente ambientali in cui le persone divengono vittime casuali di reati vari per ragioni che non hanno nulla a che fare con il loro patrimonio genetico'' dice Beaver, che e' professore in uno dei 10 migliori College al mondo di Criminologia e di Giustizia Criminale. ''Comunque, siccome sappiamo che alcuni tratti della persona sono influenzati geneticamente, come, ad esempio, lo scarso auto controllo che determina comportamenti delinquenziali e siccome i delinquenti, anche quelli particolarmente violenti, tendono ad associarsi in gruppo con i coetanei con altrettanti comportamenti antisociali, ho ragione di sospettare che i fattori genetici possano influenzare la quota di coloro che rimangono vittime di crimini, e questi fattori sono appunto alla base del nostro studio.'', aggiunge.
Beaver nel suo studio longitudinale ha analizzato un campione di gemelli identici e fraterni estratto da un grande campione rappresentativo di adolescenti di entrambi i sessi intervistati nel 1994 e 1995. L'intervista ha raccolto informazioni che includevano dettagli in merito alla vita famigliare, alla vita sociale, le ralazioni con l'altro sesso, le attivita' del tempo libero, uso di alcolici e droghe, predisposizione a rimanere vittima di reati.
I dati hanno mostrato che, nei gemelli identici, i fattori genetici considerati raggiungono il 40-45% della varianza nella vittimizzazione adolescenziale, mentre il resto della varianza riguardava i soggetti non gemmelli e che non condividevano lo stesso ambiente. Gli effetti dei fattori genetici considerati raggiungeva il 64% della varianza, se si considerano i gemelli vittime di reati plurimi.
''Il nodo cruciale riguarda il fatto che, se i fattori genetici sono la causa del maggior rischio di essere vittima di reati, siccome questi fattori non cambiano, allora ci sono buone probabilita' che questi individui rimangano piu' volte vittime di reati durante il corso della vita'' dice Beaver.
Tutti i risultati dello studio sono descritti in un articolo che sara' pubbblicato nel numero speciale di luglio 2009 del Youth Violence and Juvenile Justice che si occupa di criminologia biosociale.
''E' possibile che si riesca ad identificare l'effetto dei geni sulla vittimizzazione perche' questi possono essere compresi indirettamente attraverso il comportamento'', dice Beaver. ''Gli stessi fattori genetici che determinano i comportamenti antisociali possono anche determinare fenomeni di vittimizzazione, in quanto gli adolescenti che sono coinvolti in atti di delinquenza tendono ad avere compagni ed amici ugualmente delinquenti da cui possono subire dei reati e la loro stessa delinquenza. A turno quindi, questi individui possono essere vittime e criminali allo stesso tempo. Vittime, perche' possono subire, anche ripetutamente, le violenze dei propri coetanei e delinquenti perche' possono essere i protagonisti di violenze inflitte agli altri.''
Vittime e criminali non sono sempre innocenti protagontisti passivi di eventi ciminali occasionali, ma a volte partecipano attivamente alle proprie esperienze di vittimizzazione.
''Comunque, non diciamo che i fenomeni di vittimizzazione si verificano perche' un gene dice ''Ok! Sii vittima!'' e non diciamo che la vittimizzazione dipende totalmente dai fattori genetici.'', dice Beaver. ''Tutti i tratti e comportamenti dipendono da una combinazione di fattori genetici ed ambientali''.
Sono quindi i fattori ambientali che possono fare la differenza, infatti l'ambiente sociale e famigliare di un adolescente puo' sia esacerbare sia smussare gli effetti negativi che i geni hanno sul comportamento.

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/150253.php

venerdì 15 maggio 2009

L'espressivita' degli adolescenti depressi

Gli adolscenti che non riescono ad esprimere le loro emozioni sono piu' esposti ai sintomi depressivi. Questo studio e' stato pubblicato sul British Journal of Developmental Psychology.
Lo studio, condotto da Jennifer Betts, Eleonora Gullone e Sabura Allen del Monash University di Melbourne, ha riguardato le strategie di regolazione delle emozioni di 44 adolescenti di eta' compresa tra 12 e 16 anni con un elevato livello di sintomi di depressione messe a confronto con quelle di 44 adolescenti senza alcun sintomo.
''Abbiamo scoperto che gli adolescienti con i sintomi depressivi sopprimono l'espressione delle loro emozioni in misura significativamente maggiore dei loro pari non depressi. Gli adolescenti non depressi, inoltre, riportano alti livelli di ''rielaborazione cognitiva'', infatti questi individui ripensando a eventi e situazioni negative, le rielaborano cercando delle soluzioni e/o aspetti positivi. Per esempio, piuttosto che vedere il giudizio negativo di un compito come segno di fallimento, preferiscono vederlo come un occasione per migliorare le loro performance future'' dice Eleonora Gullone.
''Siccome la depressione e' un disturbo debilitante e' necessario comprendere di piu' le strategie di regolazione delle emozioni che vengono usate dagli adolescenti depressi. In questo modo abbiamo l'opportunita' di sviluppare terapie psicologiche che mirano a risolvere i problemi legati a queste strategie ed a ridurre i pensieri negativi tipici dei depressi.'' aggiunge.
Lo studio svela, inoltre, che molti adolescenti hanno ricevuto minori cure o hanno avuto genitori iperprotettivi rispetto al gruppo dei non depressi. Da questa ricerca, pero', non e' chiaro se lo stile dei genitori sia la causa o il risultato dei sintomi depressivi degli adoloscenti.

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/149601.php

Suicidio in Groenlandia

In Groenlandia (foto a destra) il tasso di suicidi aumenta durante l'estate. Il picco maggiore si ha in giugno. I ricercatori affermano inoltre che il fenomeno e' dovuto all'insonnia causata durante le incessanti ore di luce. La ricerca e' pubblicata su BMC Psychiatry.
Karin Sparring Björkstén del Karolinska Institutet (Svezia), con il suo team, ha studiato i suicidi in Groenlandia dal 1968 al 2002 in relazione alle variazioni stagionali del Paese. Il team ha scoperto che c'e' una maggiore concentrazioni di suicidi proprio nei mesi estivi e che quest'effetto e' maggiore nel North del Paese, in un'area dove il sole non tramonta mai tra la fine di aprile e la fine di Agosto.
Björkstén dice che la Groenlandia e' il Paese in cui le condizioni di vita degli abitanti sono piu' esteme proprio a causa dei fenomeni legati al susseguirsi delle stagioni. La Groenlandia e' uno dei primi paesi al mondo per tasso di suicidi. I suicidi esaminati sono stati quasi esculusivamente violenti e maggiori durante i giorni di luce costante. Nel nord del Paese ben l'82% dei suicidi si e' registrato in questi mesi.
La maggior parte dei suicidi ha riguardato giovani di sesso maschile e come si e' detto utilizzando nel 95% dei casi metodi violenti, come l'arma da fuoco, l'impiccagione e la precipitazione. Non sono stati riscontrati, invece, variazioni stagionali dei suicidi a seguito dell'eccessivo consumo di alcool. I ricercatori suppongono che le ore di luce generano squilibri del sistema serotoninergico e questo porterebbe ad un incremento dell'impulsivita' che, in combinazione con la mancanza di sonno, puo' determinare il maggior numero dei suicidi durante l'estate. I ricercatori dicono che le persone che vivono alle latitudini piu' alte necessitano di estrema flessibilita' per adattarsi al fenomeno. Durante i periodi di luce costante e' necessario mantenere invariati i propri ritimi circadiani in modo tale da avere sufficienti ore di sonno che sono indispensabili per la salute mentale. Il fragile sistema serotoninergico puo' causare difficolta' di adattamento.
''La luce e' solo uno dei tanti fattori implicati nella complessa tragedia del suicidio, ma questi studi dimostrano che una correlazione tra i due e' comunque significativa.'' conclude la Björkstén.

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/149409.php

giovedì 7 maggio 2009

Migliorare le capacita' cognitive attraverso l'allenamento

Gli anziani possono migliorare memoria ed attenzione attraverso l'esercizio. Questo e' il risultato di uno studio presentato al meeting annuale dell'American Geriatrics Society a Chicago.
Elizabeth Zelinski, prof.ssa alla Southern Univeristy della California e che ha condotto lo studio, ha provveduto a dimostrare anche che l'aumento delle capacita' mnestiche dei soggetti e' duraturo, persino alcuni mesi dopo la cessazione dell'attivita' di allenamento.
Allo studio ha partecipato un campione casuale di 487 adulti in piena salute, con un eta' media di 65 anni. Meta' di loro sono stati assegnati al gruppo sperimentale che prevedeva l'allenamento, attraverso un software, di 40 ore settimanali per 8 settimane. L'altra meta' dei soggetti (il gruppo di controllo) ha passato lo stesso tempo assistendo ad alcune conferenze e rispondendo a quiz.
Lo studio ha trovato che la velocita' dei processi mentali di coloro i quali avevano partecipato al training attraverso l'ausilio del software, era incrementata piu' del doppio, con un incremento medio del 131%. Essi inoltre hanno un incremento delle capacita' di memoria e di attenzione in media pari a 10 anni in meno di eta'. Questi cambiamenti sono stati sufficienti da permettergli di avere dei significativi benefici durante le quotidiane attivita' nella vita di tutti i giorni (come ricordare i nomi o riuscire a partecipare alle conversazioni in ambienti rumorosi senza essere distratti). L'aumento delle capacita' del gruppo sperimentale sono state clinicamente significative, mentre quelle del gruppo di controllo sono state significativamente minori e non clinicamente significative.
Il software utilizzato, chiamato The Brain Fitness Program, e' stato sviluppato da un team internazionale di neuroscienziati e prevede 6 esercizi. Il prodotto e' basato sulle scienze relative alla plasticita' cerebrale, ossia l'abilita' del cervello di formare nuove connessioni in risposta a diversi tipi di stimoli.
Marlene Allen, di 75 anni, di Mill Walley, in California, che ha partecipato all'esercizio dice:
''Adesso non devo preparare la lista della spesa scrivendo sul foglio di carta quello che devo comprare. Ne avevo bisogno prima di andare in negozio. Adesso, quasi mai mi capita di recarmi in una stanza della mia casa e dimenticarmi perche' ci ero andata.''
''I cambiamenti che abbiamo visto nel gruppo sperimentale sono stati notevoli e significativamente maggiori rispetto al gruppo di controllo.'' dice la Dott.ssa Zelinski ''Dal punto di vista dei ricercatori l'aumento delle capacita' dei soggetti e' stato davvero impressionante, perche' la gente ha migliorato maggiormente con l'allenamento e questi miglioramenti, basati su misure standard delle capacita' di memoria, hanno avuto un forte impatto sulla loro vita. Questo significa che il declino cognitivo non e' una parte inevitabile della vita dell'uomo. Svolgendo attivita' cognitive specifiche possiamo migliorare le nostre abilita' a prescinedere dalla nostra eta'.''
Questo studio, che prende il nome di IMPACT, e' stato il piu' grande studio mai condotto sui programmi di allenamento del cervello disponibile al pubblico ed e' stato il primo ad essere pubblicato su una rivista medica specializzata, dove vengono illustrati i miglioramenti di memoria ed attenzione. E' stato pubblicato infatti nel numero di Aprile del Journal of the American Geriatrics Society. Le nuove scoperte inoltre dimostrano che i benefici dovuti all'aumento delle capacita' riscontrate persistono persino per tre mesi dopo la fine del training.

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/148519.php

martedì 5 maggio 2009

Il litio puo' ridurre il rischio suicidio

Un bassissimo livello di litio (foto a destra) disciolto nell'acqua potabile puo' aiutare a prevenire il suicidio.
Lo studio in questione e' stato prontamente utilizzato per le furture ricerche in merito alla possibilita' di aggiungere del litio all'acqua potabile proveniente dalle comuni forniture.
I ricercatori dell'Universita' dell'Oita in Giappone, hanno misurato il livello di litio nell'acqua potabile, la comune acqua del rubinetto, in 18 citta' nella regione dell'Oita. I livelli di litio andavano da circa 0.7µg/l (microgrammi per litro) a 59µg/l.
In seguito i ricercatori hanno calcolato il tasso di suicidio nelle stesse 18 citta' ed hanno notato che il tasso di suicidi in quest'area era significativamente inferiore a fronte di concentrazioni superiori di litio nell'acqua.
La ricerca e' pubblicata sul numero di maggio del British Journal of Psychiatry dove un ricercatore dice che lo studio suggerisce che bassissimi livelli di litio nell'acqua che beviamo possono abbassare il rischio di suicidio. Quindi bassissimi livelli di litio possono avere un affetto ''antisuicida''.
Il litio e' un metallo alcalino che si trova naturalmente in quantita' variabile nel cibo e nell'acqua. Nella medicina, piccolissime dosi di questo elemento sono usate per trattare i disordini bipolari ed i disturbi dell'umore, ma non si era mai arrivati a pensare che il litio potesse avere effetti sulla riduzione del rischio di suicidio perche' prima di questa ricerca non si era studiato cosi' da vicino il legame tra suicidio e litio.
Il professor Allan Young, psichiatra, ha descritto lo studio come intrigante.
Commentanto sul British Journal of Psychiatry lo studio giapponese egli dice:
''Il primo passo logico sarebbe che il Consiglio Medico di Ricerca convochi una riunione di esperti per esaminare le prove disponibili e per stimolare future ricerche.
Potrebbero essere fattibili degli esperimenti su larga scala che comportino l'assunzione di litio attraverso l'aggiunta del minerale alle acque potabili, sebbene azioni di questo tipo dovrebbero indubbiamente essere sottoposte a dibattito. Gli studi successivi a questa scoperta non saranno ne chiari ne economici, ma i benefici per la salute mentale della comunita' generale potrebbero essere considerevoli.''

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/148872.php

domenica 3 maggio 2009

Perche' agli studenti non piace andare a scuola?

A volte, sia gli insegnanti sia i genitori si chiedono:
- ''Perche' agli studenti non piace andare a scuola?''.
Anche molti studenti se lo chiedono quando lottano per stare attenti in classe, in attesa del suono liberatorio della campana, che gli consentira' di dedicarsi alle cose alle quali sono davvero interessati.
''Se chiedessimo a 100 studenti delle scuole superiori di dirci se a loro piace imparare cose nuove, probabilmente quasi tutti risponderanno che a loro piace'', dice Daniel Willingham, psicologo cognitivo dell'Universita' della Virginia ''ma se facessimo la stessa domanda mentre gli stessi studenti sono a scuola, molti di loro risponderebbero il contrario''.
Il dott. Daniel Willngham ha descritto queste problematiche nel libro ''Why don't students like school?'' dove spiega come funziona la mente in queste occasioni e qual'e' il significato di ''classe''.
''La mente e' effettivamente disegnata per evitare di pensare'' dice Willingham ''L'attivita' di pensare richiede un processo lento; questo processo e' difficoltoso e perfino incerto. Naturalmente evitiamo questa attivita' ed invece ci affidiamo alla memoria soprattutto per le cose che gia' sappiamo fare e che sono state gia' fatte con successo altre volte.''
''Se volessimo cucinare degli spagetti al sugo di pomodoro, per esempio, dovremmo cercare la ricetta in internet o sul libro di cucina e preparare la pietanza utilizzando l'esatta procedura descritta. Molte persone, invece, preparano gli spaghetti esattamente allo stesso solito modo, perche' gia' sanno come fare. Ed ovviamente questo e' molto piu' semplice da fare.''
Qual'e' dunque la ragione per cui agli studenti non piace la scuola? Perche' sono forzati a pensare, ad accettare le sfide, ad imparare nuove cose e, quindi, sforzarsi di fare quello che cercano di evitare, cioe' pensare appunto.
Questo vale solo fino ad un certo punto, pero'. La gente e' anche curiosa a volte.
''Alla gente piace pensare, quando questa attivita' e' ad un livello tale da essere non troppo semplice e non eccessivamente difficoltosa.'' dice Willingam. ''Alla gente piace essere sfidata, ecco perche' giochiamo con i vari giochi, leggiamo libri, facciamo molte delle cose che facciamo. Cosi c'e' un punto di equilibrio in cui l'apprendimento non e' ne' troppo semplice da rendere poco interessanti le cose da apprendere, ne' troppo difficile per essere godibile. Questo' e l'equilibrio che gli insegnanti cercano sempre di trovare per i loro studenti.''
E' qui che si inserisce l'insegnamento creativo che usa una combinazione di narrazione, che evoca emozioni e pensieri, ed esercizi che inseriscono la lezione nel contesto e che sono costruiti sulle sessioni di apprendimento precedenti. Willingham dice che le abilita' di pensiero creativo dipendono da conoscenze fattuali.
''Alla fine vogliamo creare esperienze di apprendimento'' dice.
Willingham ha speso circa 15 anni della sua carriera come scienziato in ricerche in ambito cognitivo, conducendo anche studi in laboratorio. Ha cominciato discutendo con gruppi di docenti e scoprendo che i risultati ottenuti in laboratorio erano molto interessanti per gli insegnanti durante la loro attivita' quotidiana.
Gli insegnanti spesso gli rivolgono sempre la domanda relativa al modo in cui apprendono gli studenti con stili di apprendimento differenti.
''Ci sono differenti abilita', ma realmente, il modo con cui apprendiamo nuove informazioni e' sempre lo stesso'' dice. ''Il processo di apprendimento non dipende solamente dall'emisfero destro del cervello piuttosto che dal sinistro, o dalla corteccia visiva o uditiva o dalle abilita' cinestetiche. Impariamo usando una combinazione di capacita', ed il nostro stile di apprendimento e' piuttosto simile che differente.''
Gli studenti, naturalmente, imparano meglio nelle aree o nelle discipline dove le loro abilita' sono carenti. La chiave degli insegnanti, e degli studenti, e' quella di trovare il giusto punto di equilibrio in cui l'apprendimento rappresenta una sfida che ci spingera' a fare di piu' rispetto al solito modo con cui prepariamo gli spaghetti al pomodoro.

Fonte: http://www.medicalnewstoday.com/articles/147470.php